Rivista Corporate Governance ISSN 2724-1068 / EISSN 2784-8647
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


I trust e gli istituti affini (di Marco Maceroni, Professore a contratto di Diritto commerciale e Diritto privato e dell'impresa presso l'Università degli Studi di Bologna – Alma Mater Studiorum)


Lo scritto si concentra sulla iscrizione dei trust e degli istituti affini alla sezione del registro delle imprese, evidenziando come la disciplina di recepimento abbia tradotto l’asettico principio formulato dal legislatore comunitario della quinta direttiva. Nel confronto con gli istituti notificati dagli Stati membri, si propone una ricostruzione del fenomeno, operando una lettura alternativa a quella classica fondata sul maggiore o minore livello di segregazione. Definiti gli ambiti applicativi in diritto italiano, si procede agli aspetti caratterizzanti l’input dei dati relativi ai titolari effettivi e al contenuto del layout pubblicitario.

Trusts and similar legal arrangements

The paper focuses on the registration of trusts and similar legal arrangements in the section of the register of companies, highlighting how the transposition framework has translated the aseptic principle formulated by the fifth AMLD. In comparison with the institutions notified by the Member States, we propose a reconstruction of the phenomenon, using an alternative interpretation to the traditional one based on a greater or lesser degree of patrimony segregation. Once we defined the areas of application in Italian law, we proceed to verify the methods of uploading data relating to the beneficial owners and the disclosure layout.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il recepimento della disciplina di settore - 3. Gli indicatori di titolarità effettiva nei trust e negli istituti affini - 4. La mancata istituzione della “apposita sezione speciale” dei trust (e degli istituti affini) e la possibile descrizione della fattispecie - 5. Gli istituti affini al trust - 5.1. La fiducie francese - 5.2. Il contrat de fiduciaire lussemburghese - 5.3. Il contratto di fiducia spagnolo e il fideicomiso - 5.4. L’istituto dell’affidamento fiduciario sammarinese - 5.5. Il vincolo di destinazione - 5.6. Ipotesi ricostruttive - 6. Gli istituti affini nel d.m. 12 aprile 2023 - 7. La fase di input: la comunicazione all’apposita sezione speciale - 8. La consultazione. I limiti all’accesso. L’impatto della decisione della CGUE - NOTE


1. Premessa

La quinta direttiva antiriciclaggio (direttiva 2018/843 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2018, di seguito V AMLD) introduce nell’ambito oggettivo di riferimento del registro dei titolari effettivi, oltre al trust, anche gli “istituti giuridici aventi assetto o funzioni affini a quelli del trust”, già richiamati incidentalmente nella IV direttiva, ma ora destinatari di una disciplina specifica. La V AMLD, riconosce sin dal 26° considerando le differenze esistenti tra i sistemi giuridici degli Stati membri, in merito al fatto che alcuni trust e istituti giuridici affini non sono affatto monitorati o registrati nell’Unione. Nei successivi considerando, si prende atto della vasta gamma di tipologie di trust esistenti attualmente nell’Unione e del panorama ancor più variegato degli istituti giuridici affini, rinviando alla identificazione da parte degli Stati membri di un trust o un istituto giuridico analogo ad altri soggetti giuridici. Nei successivi considerando la direttiva tenta di definire un difficile punto di equilibrio tra le esigenze di prevenzione delle condotte criminali, cui aggiunge anche la prevenzione dell’evasione fiscale [1] e i diritti fondamentali delle persone interessate. Come noto la ricerca di questo equilibrio è stata talmente difficoltosa d’aver condotto alla celebre sentenza della CGCE del 2022 [2]. Il quadro normativo comunitario, a seguito della V AMLD, completa dunque l’ambito oggettivo di applicazione della disciplina, sia sostanziale, che formale (il registro dei titolari effettivi) creando sostanzialmente un sistema a tre livelli: società; persone giuridiche diverse da quelle societarie e regolate dal diritto privato; trust, cui vengono affiancati e per taluni aspetti sovrapposti gli istituti affini. La necessaria astrattezza connessa alla disciplina comunitaria, costretta a mediare tra 27 sistemi giuridici differenti, raggiunge in questo segmento, livelli senza precedenti, come anche lo stesso legislatore nei considerando rileva, attesa la differente penetrazione nei vari ordinamenti dell’istituto del trust, e la vaghezza, prim’ancora che atipicità dei cd. istituti affini, solo parzialmente temperata dall’art. 20-bis del testo consolidato, che al par. 10, prevede che entro il 10 luglio 2019 gli Stati membri dovevano comunicare alla Commissione le categorie, la descrizione delle caratteristiche, [continua ..]


2. Il recepimento della disciplina di settore

La normativa italiana di recepimento della V AMLD, che come nei precedenti casi confluisce nel testo consolidato del d.lgs. n. 231/2007, ha introdotto alcuni elementi di rilievo sui quali appare opportuno condurre un’analisi approfondita. Concentrando la nostra attenzione sulla sezione del titolare effettivo, la scelta del legislatore di recepimento è stata indirizzata nel distinguere i soggetti interessati dalla speciale pubblicità prevista dalla direttiva, inserendo nell’attuale art. 20 del d.lgs. n. 231, esclusivamente le società e le persone giuridiche private [5], per le quali individua gli indicatori di titolarità effettiva mentre i trust e gli istituti affini sono contemplati al successivo art. 21. La topografia legislativa merita una riflessione. L’art. 21 è quello che istituisce la sezione del titolare effettivo, quale applicazione del registro dei titolari della V AMDL e nell’ambito della quale vengono definiti i criteri di delega su cui poi è stato redatto il d.m. n. 55/2022. L’articolo però, contempla anche l’obbligo di censimento e comunicazione dei titolari effettivi per i trust e gli istituti affini. In sostanza l’art. 20 descrive per le società e le persone giuridiche il criterio sostanziale di titolarità effettiva. L’art. 21 impone alle società e persone giuridiche l’obbligo di comunicazione dei titolari effettivi, nella sezione del registro delle imprese, censisce e impone ai trust e istituti affini, la medesima comunicazione, ma il criterio sostanziale di titolarità effettiva per questi ultimi due istituti è disciplinato solo all’art. 22, norma che in realtà inquadra le modalità formali e sostanziali di adeguata verifica in capo agli obbligati. È evidente che tale impostazione legislativa, piuttosto complessa, rappresenta una scelta discrezionale volta a distinguere in maniera esplicita l’ambito dei soggetti interessati dalle norme (sia sotto i profili sostanziali che formali). Se è vero che l’adeguata verifica riguarda tanto le società (di persone o di capitali), gli altri enti commerciali, le persone giuridiche, i trust e gli istituti affini, oggetto peraltro di verifica rafforzata a norma dell’art. 18, comma 1, lett. b), le regole per la determinazione del titolare effettivo nelle società e persone giuridiche, differiscono da [continua ..]


3. Gli indicatori di titolarità effettiva nei trust e negli istituti affini

Premesso quanto precede sotto il profilo più schiettamente letterale e linguistico, la disciplina primaria di recepimento, nel combinato disposto dell’art. 21, comma 3 (che indica il contenuto della comunicazione alla sezione del titolare effettivo dei trust e istituti affini, con rinvio all’art. 22, comma 5) e dello stesso art. 22 comma 5 (che prescrive le informazioni che i trust e gli istituti affini devono detenere e conservare) evidenzia quali requisiti soggettivi di titolarità effettiva, l’identità del costituente o dei costituenti, del fiduciario o dei fiduciari, del guardiano o dei guardiani ovvero di altra persona per conto del fiduciario, ove esistenti, dei beneficiari o classe di beneficiari e delle altre persone fisiche che esercitano il controllo sul trust o sull’istituto giuridico affine e di qualunque altra persona fisica che esercita, in ultima istanza, il controllo sui beni conferiti nel trust o nell’istituto giuridico affine attraverso la proprietà diretta o indiretta o attraverso altri mezzi. A differenza dell’ipotesi delle società e delle persone giuridiche, in cui la norma ha individuato una analitica stufenbau inversa in cui il livello di definizione del titolare effettivo degrada fino alla ipotesi di non verificabilità che comporta la (motivanda) presunzione di titolarità effettiva in capo all’amministratore/rappresentante, nella fattispecie che qui interessa la ricostruzione appare meno limpida. Quanto precede conduce ad uno dei punti di snodo della intera questione. Ci si deve cioè interrogare su quale sia effettivamente la volontà perseguita dal legislatore comunitario. L’art. 31, par. 1, della direttiva (testo consolidato) effettivamente concepisce la medesima declaratoria, osservata nell’analisi dell’art. 22 comma 5, del d.lgs. n. 231, con riferimento alle informazioni che i fiduciari di trust espressi e istituti affini devono ottenere e mantenere in merito alla titolarità effettiva del trust e dell’istituto affine. Il successivo par. 3-bis, prescrive che “le informazioni sulla titolarità effettiva di trust espressi e istituti giuridici affini di cui al paragrafo 1 siano contenute in un registro centrale dei titolari effettivi”. Sembrerebbe pertanto esserci una sostanziale sovrapposizione tra direttiva e recepimento. La questione centrale risiede, a mio parere, nella esatta [continua ..]


4. La mancata istituzione della “apposita sezione speciale” dei trust (e degli istituti affini) e la possibile descrizione della fattispecie

Si è già rilevato in precedenza come il d.m. n. 55 non abbia adempiuto integralmente la delega in materia di istituzione del registro anagrafico dei trust e degli istituti affini. La mancanza di un registro anagrafico che consenta di censire i soggetti obbligati alla comunicazione, oltre a produrre le esternalità negative evidenziate nel par. 2, di natura eminentemente amministrativa e sanzionatoria, pongono anche un problema a monte di definizione della fattispecie. Il comma 3, secondo capoverso, dell’art. 21, nel dettare il contenuto dell’obbligo di comunicazione in capo al “fiduciario o fiduciari, o altra persona per conto del fiduciario o della persona che esercita diritti, poteri e facoltà equivalenti in istituti giuridici affini” fa riferimento ai “trust produttivi di effetti giuridici rilevanti a fini fiscali, … nonché gli istituti giuridici affini stabiliti o residenti sul territorio della Repubblica italiana”, cioè a quegli istituti di cui il primo capoverso imponeva l’iscrizione nell’apposita sezione speciale. Appare necessario tentare di ricostruire la fattispecie sulla base di una ricostruzione eminentemente filologica. Al di là della formulazione lessicalmente non troppo felice [18], dovuta al sovrapporsi di disposizioni sul medesimo testo originario, appare evidente che il criterio della territorialità deve essere riferito tanto ai trust, quanto agli istituti affini. Va però osservato che tale territorialità deve essere declinata secondo il binomio stabilimento – residenza. Anche qui si tratta di due concetti che hanno radici giuridiche differenti. Lo stabilimento è disposizione di chiara impostazione unionale, la residenza è invece attinente alla disciplina domestica. Dall’analisi congiunta dei due principi si può, in prima istanza, dedurre che il legislatore abbia inteso, con tale disposizione, ricomprendere tanto i trust interni, quanto quelli esterni, purché siano in grado di produrre effetti fiscalmente rilevanti in Italia. A ben vedere tuttavia il Considerando 26 alla V AMLD, tiene scissi i due profili riferendoli rispettivamente all’ambito oggettivo e a quello soggettivo, almeno ex latere degli obbligati. Afferma infatti che “le informazioni sulla titolarità effettiva di trust e istituti giuridici simili dovrebbero essere registrate nel luogo in [continua ..]


5. Gli istituti affini al trust

La questione sin qui affrontata con riferimento ai trust, diviene ancor più complessa quando ci si confronta con gli altri istituti affini. Occorre partire dalla direttiva. Il linguaggio utilizzato da quest’ultima in tema di istituti affini è, coerentemente con le necessità di armonizzazione, astratto. Già a partire dai considerando ci si limita ad estendere l’ambito oggettivo della disciplina relativa ai trust, anche a questi istituti. Appare invece abnorme, e per taluni aspetti foriero di confusione, il richiamo operato dall’art. 31, paragrafo 1 (testo consolidato), a dei particolari “istituti affini”, quali la fiducie, il Treuhand e il fideicomiso. Anche qui è necessaria una ricostruzione filologica. La norma in parola, operando una formulazione inversa rispetto agli altri casi estende gli obblighi relativi al trust, agli “altri tipi di istituti giuridici, quali, tra l’altro, fiducie, determinati tipi di Treuhand o fideicomiso, quando tali istituti hanno un assetto o funzioni affini a quelli dei trust”. Il lessema “tra gli altri” evidenzia immediatamente la natura non tassativa della declaratoria, ribadita dal­l’ulteriore indicazione “determinati tipi di”, che restringe l’ambito non all’intera fattispecie del Treuhand e forse anche del fideicomiso, ma ad una parte di essi. Il richiamo all’affinità è inserito in coda al capoverso e comunque servente rispetto al­l’assetto e alla funzione di detti istituti in relazione al trust. Occorre domandarsi se: a) l’indicazione di questi istituti sia cogente (almeno per quegli ordinamenti che li prevedono); b) se sia esemplificativa della fattispecie e cioè se la direttiva intende sfrondare un ambito tendenzialmente indefinito quale quello degli “istituti affini al trust”, proponendone una declinazione, ancorché non esaustiva; c) se il richiamo operato dal paragrafo 1, sia proprio agli istituti affini, di cui ci stiamo qui occupando, o a forme specifiche di trust codificato in alcuni Stati membri, che si pongono a metà strada tra il trust espresso e la galassia degli istituti affini, evidenziando ancora una volta la volontà del legislatore dell’AMLD di non lasciare nulla fuori dal quadro oggettivo d’applicazione della disciplina. Avuto riguardo alla prima questione, si deve rilevare che, a norma [continua ..]


5.1. La fiducie francese

Il primo istituto affine che viene in evidenza, non foss’altro in quanto richiamato dal legislatore comunitario è quello della fiducie francese. Questo tipo di negozio giuridico, introdotto in Francia con la legge n. 211/2007, si presenta come un contratto in cui una parte (“le costituant”), trasferisce dei beni ad un’altra (“le fiduciaire”), affinché questa li gestisca “à profit” di uno o più beneficiari (“beneficiaires”). Come ha rilevato la dottrina francese, ne derivano in capo al costituente il divieto di immistione nella gestione dei beni trasferiti, il divieto di revoca, una volta che il contratto si sia perfezionato con l’accettazione del fiduciario e l’obbligo di pagare le imposte su di esso costituente gravanti. Di converso il fiduciario è tenuto alla gestione del patrimonio “conformemente alla missione prevista dal contratto”, al­l’adempimento degli obblighi fiscali su di esso incombenti, all’obbligo di rendiconto, all’obbligo di contemplatio domini, concretizzantesi nell’obbligo di dichiararsi fiduciario e non già proprietario, ed alla responsabilità per danni dovuti alla propria gestione [30]. Nello schema francese il trapasso dei beni “transfert de la propriété des biens” dal costituente al fiduciario è ragione stessa del negozio. Certo, come osservato, la proprietà “fiduciaria” [31], non è sovrapponibile alla proprietà “ordinaria” ex art. 544 côde civil, che consente di disporre delle cose nel modo più assoluto, ma, limitata nella durata e nella finalizzazione impressa [32]. Al titolare conferente non competono nemmeno gli adminicula, quali l’uso, il frutto…, di cui invece può disporre il fiduciario, tanto da spingere la dottrina francese a ritenere che il fiduciario appare più proprietario del costituente [33]. Da tutto quanto precede si comprende bene che l’istituto francese prevede uno spossessamento dei beni conferiti, principio corroborato dalla regola per cui i creditori personali del costituente non hanno diritti sui beni conferiti e inversamente i creditori del patrimonio fiduciario non avranno accesso al patrimonio personale del costituente (né a quello del fiduciario, che risponde solo per eventuali danni causati dal [continua ..]


5.2. Il contrat de fiduciaire lussemburghese

Il contratto lussemburghese appare per taluni aspetti una variante di quello francese. Al di là degli aspetti lessicali, si parla di fiduciant anziché di constituant, è interessante notare che la legge 124/2003 del Granducato, con unico atto ratifica (approbation) la convenzione dell’Aia sul trust e disciplina l’istituto del contrat de fiduciaire. Anche la norma lussemburghese tende a distinguere i due istituti [35], ma rispetto alla norma francese appare ancor più orientato rispetto ad un criterio di segregazione totale dei beni, affermando che il fiduciario “devient propriétaire de biens formant un patrimoine fiduciaire” sia pure per le finalità indicate nel contratto stesso (“sous les obligations déterminées par les parties”), fermo restando che è prevista la facoltà per il fiduciante di rinunciare al diritto di fornire indicazioni, di talché il fiduciario agirebbe in totale autonomia decisionale [36]. Anche la legge lussemburghese prevede il regime di totale impermeabilità patrimoniale. Sulla base di quanto precede credo possa affermarsi che anche il contratto fiduciario lussemburghese, rappresenti una variante degli express trust, con una forte limitazione soggettiva, essendo il ruolo di fiduciario riservato a soggetti “istituzionali” e non ad un quisque de populo, ma ciò non esclude che la matrice segregativa del trust appaia in tutta pienezza.


5.3. Il contratto di fiducia spagnolo e il fideicomiso

È opportuno avviare l’analisi dall’istituto del fideicomiso che affonda le sue radici nel fideicomissum romano, almeno nella versione giustinianea, e ha forti attinenze col fedecommesso di cui all’art. 692 c.c., non foss’altro per la fonte mortis causa e il riferimento soggettivo passivo a soggetti svantaggiati [37]. A norma dell’articolo 781 del codigo civil il fedecommesso si concretizza nell’istituzione di un erede successivo “fideicomisario” perché entri in possesso dell’l’eredità dopo il primo o il precedente istituito “fiduciario” [38]. La disciplina civilistica spagnola prevede una vera e propria trasmissione del patrimonio al fiduciario, tanto che a norma dell’art. 784 del codigo civil, il fedecommissario acquisisce l’eredità alla morte del testatore, ma il diritto si perfeziona solo dopo la morte del fiduciario [39]. Si è opportunamente osservato che la differenza con l’usufrutto ad es, è data dal fatto che mentre questo è jus in re aliena, il fideicomiso non è mai su beni altrui, ma in re propria [40]. La Commissione nella richiamata relazione, ha avuto modo di evidenziare che il fideicomiso è tra gli istituti giuridici esplicitamente individuati come affini ai trust sia nelle norme della GAFI sia nella direttiva antiriciclaggio. Ci sono vari istituti giuridici nell’UE condividono la stessa origine del fideicomiso e nella maggior parte dei casi, tali istituti sono stati aboliti o consentono soltanto ai tutori legali di occuparsi dei beni di un minore o di una persona con disabilità cognitive e nessuno dei suddetti istituti è stato notificato dagli Stati membri. La Commissione ne cava quindi il principio per cui “…nel caso della sostituzione fedecommissaria o di istituti quali il fideicommissum [de] residuo, il destinatario dei beni è l’unico titolare e i beni (o la parte restante) sono trasferiti a un beneficiario solo al momento della morte. In questi casi, la persona che gestisce i beni può beneficiare della totalità dei propri beni senza le limitazioni che solitamente caratterizzano un accordo fiduciario. Pertanto, un siffatto istituto non replica né l’assetto né la funzione del trust di separare il diritto di proprietà o la gestione di taluni beni dalla loro titolarità [continua ..]


5.4. L’istituto dell’affidamento fiduciario sammarinese

Sembra doveroso far cenno, ancorché estraneo alla nostra analisi, in quanto trattasi di Paese non aderente all’Unione, né allo Spazio economico europeo, alla disciplina introdotta nell’ordinamento della Repubblica di San Marino, sia per ragioni prettamente geografiche, sia per un certo ascendente che essa ha avuto sul dibattito giuridico – parlamentare (nostrano) che negli scorsi anni ha monopolizzato l’atten­zione e che è si è solo parzialmente placato con l’emanazione della disciplina sul “dopo di noi”, per ritornare in auge con alcune proposte di legge presentate nella scorsa legislatura, totalmente esemplate sul modello della Repubblica del Titano. Appare particolarmente interessante, sotto un profilo dogmatico, l’operazione sammarinese, in relazione alla impostazione neo-romanistica del diritto civile di quello Stato [45]. La norma (legge 34/2010) prevede la possibilità di costituire un contratto col quale l’affidante e l’affidatario convengono il programma che destina taluni beni e i loro frutti a favore di uno o più beneficiari, parti o meno del contratto, entro un termine non eccedente novanta anni. L’affidamento concretizza un vero e proprio trasferimento dei “beni all’affidatario” o comunque un vincolo “per l’attua­zione del programma destinatorio” che costituisce “il patrimonio affidato”, con un evidente effetto segregante [46]. Questo principio è così presente nella disciplina sammarinese, tanto da consentire con il contratto, l’attribuzione di una denominazione al patrimonio affidato. I beni del patrimonio affidato sono tenuti dall’affi­da­ta­rio separati dai propri e separatamente identificabili e le intestazioni e i procedimenti pubblicitari menzionano l’inclusione dei beni nel patrimonio affidato. La norma sammarinese evidenzia (anche nel confronto con la coeva legge 42, sui trust) una netta separazione tra i due istituti: unilaterale il primo, contrattuale quello in esame; estraneità dei beneficiari nel trust, possibilità di divenire parti del contratto, nell’affidamento, ancorché si registri un’assonanza tra i due istituti sotto il profilo della dotazione e dell’effetto segregativo sopra richiamato.


5.5. Il vincolo di destinazione

Con l’introduzione nell’ordinamento giuridico nazionale della disciplina in parola, è stato realizzato anche nel diritto civile quell’effetto segregante che la legge italiana ha sempre visto con sospetto, in quanto eccessivamente richiamante istituti di common law. Vale la pena soffermarvisi, in quanto, d’un lato chiude la lunga teoria degli istituti (fiduciari) con effetto segregativo, dall’altro, in quanto notificato espressamente dallo Stato italiano alla Commissione UE, ricade nel­l’ambito della nostra analisi. Il vincolo comporta un atto dispositivo del proprio patrimonio con cui è possibile separarne una parte, destinando alcuni beni alla realizzazione di scopi meritevoli di tutela e in favore di determinati soggetti beneficiari. La diffidenza dell’ordinamento civilistico nei confronti di questo tipo di atti si riscontra nei limiti posti dalla norma: l’oggetto del vincolo (limitato a beni immobili e mobili registrati), la durata (non può superare i novant’anni o la durata della vita del beneficiario), la forma (pubblica, probabilmente non ad substantiam, vd. dopo) e la pubblicità (trattandosi di beni registrati la pubblicità, richiama l’obbligo del­l’atto pubblico almeno ad regularitatem, cadendo però nel cul de sac della inefficacia del vincolo se non trascritto, che di fatto rende la forma “quasi” ad substantiam) [47], principi di fatto già sperimentati (mutatis mutandis) nei trenta anni precedenti l’emanazione della disciplina in parola, con i fondi patrimoniali [48]. Ma soprattutto la norma richiede la meritevolezza dell’interesse, ponendo nella dottrina una divergenza di vedute nella definizione in termini di elemento ulteriore rispetto alla liceità; sono due valutazioni quindi che si pongono su distinti piani, il primo dei quali, avente ad oggetto la liceità, è prioritario e presupposto rispetto al secondo [49]. Non mancano peraltro opinioni dottrinarie che considerano sovrapponibili i due profili e che ritengono quindi le due valutazioni equivalenti alla luce del richiamo contenuto nell’art. 2645-ter al disposto dell’art. 1322 c.c. [50]. Per quanto qui maggiormente interessa, si può osservare come appare indubbio, anche in questo istituto l’effetto segregativo, ancorché non possa costituire l’unica e sola causa [continua ..]


5.6. Ipotesi ricostruttive

Il quadro espresso nei cinque subparagrafi precedenti, evidenzia una situazione in cui si intrecciano tra di loro fattispecie in cui appare evidente una traslazione del bene o del diritto, e fattispecie in cui sfuma o manca l’effetto segregativo propriamente detto. Appare opportuno recuperare a questo punto quanto indicato dalla Commissione in sede di relazione al Parlamento dell’Unione. Il par. III.2 della relazione, dedicato agli istituti affini esordisce affermando che “se è vero che i trust di common law possono difficilmente essere riprodotti in quanto tali nella civil law, altri istituti giuridici presentano notevoli affinità in termini di funzione o assetto. In tali istituti la separazione tra titolarità giuridica ed effettiva non è necessariamente tanto marcata quanto lo è nei trust, ma i suddetti creano tuttavia un legame fiduciario che può essere assimilato a quello istituito in un trust”. Non si può prescindere, ai fini della nostra analisi, da quanto indicato dalla Commissione, che nelle conclusioni (par. V) evidenzia che l’esame rivela che un’ampia gamma di istituti presenta affinità con il trust di common law, in linea con le condizioni di cui all’art. 31 della direttiva antiriciclaggio. Istituti giuridici come la Treuhand o la fiducie, da un lato, possono essere considerati affini ai trust in virtù della loro funzione, mentre altri istituti, quali la tutela, la curatela e l’amministrazione delle successioni possono essere considerati affini in virtù del loro assetto. Emerge una ricostruzione fondata su un criterio di maggiore o minore vicinanza al trust, che è stato tradotto, nel linguaggio giuridico, non solo italiano, come maggiore o minore effetto segregativo, dove il trust rappresenta il prototipo di istituto comportante l’effetto segregativo e non realizzativo di alcun trasferimento (fiscalmente rilevante), come sostenuto dalla giurisprudenza [53]. L’altro elemento comune nella rappresentazione della fattispecie è costituito dal legame fiduciario presente nel rapporto tra costituente e gestore (come denominati nei vari istituti), anche in questo caso, come sopra osservato, più o meno evidente di caso in caso. La dottrina tedesca, ad esempio, che si è occupata della questione, ha avuto modo di rilevare che il rapporto fiduciario sottostante questi istituti affini, presenta [continua ..]


6. Gli istituti affini nel d.m. 12 aprile 2023

Il complesso normativo recato dal decreto di recepimento, dal d.m. n. 55 e dai decreti ministeriali attuativi, sulla base della notifica operata dal Governo italiano e recepita nella Comunicazione 360/05 più volte richiamata, offre una ricostruzione parzialmente contraddittoria (o per lo meno non immediatamente coerente) degli istituti affini. Come osservato l’Italia ha notificato l’istituto del mandato fiduciario e quello del vincolo di destinazione. Il d. 231 opera un primo passaggio importante, definendo (all’art. 22, comma 5-bis) gli istituti affini, come quelli che, “anche avuto riguardo alla destinazione dei beni ad uno scopo ed al controllo da parte di un soggetto diverso dal proprietario, nell’interesse di uno o più beneficiari o per il perseguimento di uno specifico fine” producono effetti simili al trust. La definizione è molto ampia e, ancorché sembri ritagliata sulla ricostruzione funzionale – dominicale (in particolare si osservi la dizione “controllo da parte di un soggetto diverso dal proprietario”) [72], nel richiamare la “destinazione”, “lo scopo” e soprattutto il “perseguimento di uno specifico fine”, non sembrerebbe escludere la visione causalistica, qui preferita. Il d.m. n. 55 si limita a riproporre la medesima definizione di istituto affine del­l’art. 22 comma 5-bis. Spostando l’analisi ad un livello meno teorico e più concreto, si rileva nel d.m. n. 55 una totale assenza dell’individuazione analitica degli istituti oggetto dell’ob­bligo. Considerando che il regolamento in parola, negli artt. 3 e 4, prescrive gli obblighi, le modalità, i termini e l’oggetto della comunicazione, rivestita di apparato sanzionatorio in caso d’omissione, a norma del decreto 231, il non aver chiarito concretamente l’oggetto della comunicazione in capo ai soggetti obbligati, crea dei dubbi interpretativi non irrilevanti. In realtà è solo con il d.d. 12 aprile 2023, disposizione non regolamentare, che di fatto approva la modulistica informatica per l’alimentazione delle sezioni, che si ha una indicazione di istituto affine, rilevante ai fini dell’implementazione della sezione del titolare effettivo. Ora, al di là della scelta dello strumento “normativo” e della sua collocazione nell’ambito della gerarchia delle [continua ..]


7. La fase di input: la comunicazione all’apposita sezione speciale

La prima problematica che emerge dall’analisi del regolamento attuativo è quella delle modalità di (primo) popolamento delle sezioni. Ovviamente il decreto 231 si è limitato ad istituire le sezioni e la scelta specifica di incardinarle nel registro delle imprese, impone determinate rigidità di sistema connesse a quello strumento specifico, nel senso che tecnicamente non è possibile costruire nell’ambito di un registro ormai quasi trentennale con oltre 6.000.000 di imprese iscritte e poco meno di 2.000.000 di bilanci annui, una sezione fondata su un modello tecnologico e procedimentale da esso distinto e ad esso contrapposto. L’impostazione, infatti è sostanzialmente quella delle iscrizioni ordinarie degli atti, fatti e notizie al registro delle imprese, non soltanto per soggetti (quali le società) ricomprese nella disciplina generale dell’art. 2188 del c.c., certamente qui molto dilatata per funzioni che non gli appartengono, ma anche per soggetti quali i nostri trust e istituti affini (oltre alle persone giuridiche), totalmente estranei a quella disciplina e per i quali la collocazione del registro dei titolari effettivi in un’apposita sezione speciale del registro delle imprese [93], ha esclusivamente fondamento tecnologico, archivistico e se si vuole, amministrativo, ma non certo produttiva di quegli effetti giuridici connessi e dipendenti dagli artt. 2188 ss., del c.c. [94]. Tuttavia, proprio la collocazione all’interno del registro delle imprese impone anche ai trust e agli istituti affini, l’utilizzo delle modalità di deposito delle domande, ai fini dell’iscrizione, amministrativamente tipico del registro delle imprese Quel che qui rileva segnalare è d’un lato la chiara indicazione del soggetto obbligato al deposito, dall’altro le modalità tecnologiche attraverso cui tale deposito si realizza, entrambi, come si rilevava, intimamente connessi agli “ordinari” depositi presso il registro delle imprese. Sotto il primo profilo, il regolamento indica gli am­ministratori (con riferimento alle società), a parere di chi scrive, in giusto ed opportuno coordinamento con quanto ricavabile dall’art. 2630 c.c., norma che si ricorda è invocata dal decreto 231 (e dal regolamento) per l’accertamento ed irrogazione delle sanzioni per mancato adempimento [95]. Criterio parallelo [continua ..]


8. La consultazione. I limiti all’accesso. L’impatto della decisione della CGUE

Il legislatore nazionale ha provveduto alla trasposizione in maniera particolarmente aderente alle indicazioni della direttiva, implementandola, per la parte che qui ci interessa, con pedissequo riferimento agli “istituti giuridici affini, stabiliti o residenti sul territorio della Repubblica italiana” e con estensione al pubblico, previo pagamento del diritto di segreteria dell’accesso, che però risulta limitato (rispetto all’omologo output relativo ai titolari effettivi delle società) al nome, al cognome, al mese e anno di nascita, al paese di residenza e alla cittadinanza del titolare effettivo e alle condizioni, di cui all’art. 20, in forza delle quali il titolare effettivo è tale. Va comunque osservato che si tratta di un set di dati comunque rilevante che, in particolare chi opera professionalmente sulla elaborazione dei dati stessi, non avrà difficoltà a integrare. In perfetta armonia col disposto normativo comunitario si prevede anche l’eccezione di ostensione qualora l’accesso esponga il titolare effettivo a un rischio sproporzionato di frode, rapimento, ricatto, estorsione, molestia, violenza o intimidazione ovvero qualora il titolare effettivo sia una persona incapace o minore d’età, secondo un approccio caso per caso e previa dettagliata valutazione della natura eccezionale delle circostanze, prevedendo altresì i mezzi di tutela dell’interesse (concorrente) alla trasparenza, in capo al consultante. In attuazione del considerando 28° della direttiva, la norma di recepimento restringe la possibilità dei soggetti privati alla consultazione della sezione dei trust (ed istituti affini) [99] soltanto se titolari di un interesse giuridico rilevante e differenziato, nei casi in cui la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per curare o difendere un interesse corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, qualora abbiano evidenze concrete e documentate della non corrispondenza tra titolarità effettiva e titolarità legale. Precisa la norma che l’interesse deve essere diretto, concreto ed attuale e, nel caso di enti rappresentativi di interessi diffusi, non deve coincidere con l’interesse di singoli appartenenti alla categoria rappresentata, fermo restando il criterio sopra richiamato della opposizione alla ostensione dei dati in casi di pericolo. Appare opportuno segnalare che [continua ..]


NOTE