Rivista Corporate Governance ISSN 2724-1068 / EISSN 2784-8647
G. Giappichelli Editore

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Profili proprietari dei beni costituiti in trust (di Francesco Di Ciommo, Professore Ordinario di Diritto Civile nell'Università Luiss “Guido Carli”)


Il d.lgs. 231/2007, nell’imporre obblighi finalizzati alla prevenzione dei rischi antiriciclaggio, all’art. 22, comma 5, dispone, tra l’altro, che i fiduciari di trust espressi, nonché le persone che esercitano ruoli “equivalenti in istituti giuridici affini, […] ottengono e detengono informazioni […] sulla titolarità effettiva del trust o dell’istituto giuridico affine”. Il presente saggio si propone di dimostrare come il polimorfismo del trust – e cioè il fatto che esistano sullo scenario internazionale diversi modelli di trust, e che molti di questi oggi possano operare in Italia alla luce della Convenzione de l’Aja del 1985 – di fatto impedisca di individuare soluzioni applicabili in ogni caso e, al contrario, imponga di svolgere indagini accurate circa la struttura e la natura del singolo trust rispetto al quale, nel caso concreto, si ponga il problema del titolare effettivo.

Owner profiles of assets set up in trust

Legislative Decree 231/2007, in imposing obligations aimed at preventing anti-money laundering riscks, in art. 22, paragrafh 5, provides, among other things, that the trustees of express trust, as well as persons who exercise “equivalent roles in similar legal institutions, […] obtain and hold information […] on the beneficial ownership of the trust or similar legal institution”. This essay aims to demonstrate how the polymorphism of the trust – that is, the fact chat different trust models exist on the international scene, and that many of these can operate in Italy today in light of the 1985 Hague Convention – in fact prevents the identification of solution applicable in every case and, on the contrary, requires carryng out careful investigations into the structure and nature of the individual trust with respect to which, in the specific case, the problem of the beneficial owner arises.

SOMMARIO:

1. L’inquadramento dominicale della vicenda scaturente da un trust - 2. Il trust tra “dual ownership” e Convenzione de L’Aja del 1985 - 3. L’operatività del trust in Italia - 4. La segregazione patrimoniale come caratteristica peculiare del trust - 5. Il c.d. trust internazionale - 5.1. La differente nozione di trust tra il modello regolato dalla Convenzione de l’Aja e quello c.d. internazionale - 6. Le conseguenze dell’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. nell’ordina­men­to italiano - 7. Conclusioni - NOTE


1. L’inquadramento dominicale della vicenda scaturente da un trust

Uno dei problemi più avvertiti dagli studiosi di matrice civilistica che, fin dalla prima metà del Novecento, si sono occupati di trust concerne, come noto, la riconducibilità dei rapporti risultanti dall’operatività dell’istituto in rassegna all’interno delle tradizionali categorie proprietarie [1]. Ciò non sorprende se solo si pensa che in ambiente angloamericano, dove il trust è nato e si è sviluppato fino a diventare un cardine del sistema giuridico, si è soliti intenderlo come un modo per ripartire i diritti su un certo bene o un certo patrimonio. Il Restatement of Trusts, infatti, lo definisce “un rapporto fiduciario afferente alla proprietà” [2]; analoghe spiegazioni ne danno i codici di diritto positivo e le trattazioni dottrinarie [3]. In Italia, in un primo momento, sia la giurisprudenza che la dottrina, manifestando un atteggiamento sostanzialmente censorio nei confronti del trust, avevano puntato il dito contro la c.d. dual ownership (o dual property) – e cioè la caratteristica per cui l’istituto in common law determina la costituzione di un diritto di proprietà in capo al trustee e di un diverso diritto di proprietà in capo ai beneficiari – per rilevarne l’incompatibilità con i principi di origine napoleonica del c.d. numerus clausus dei diritti reali e dell’unicità della proprietà [4]. Che gli studiosi di common law, in materia di trust, facciano continui riferimenti alla doppia proprietà è di tutta evidenza, sebbene non manchino autori angloamericani che revocano in dubbio tale dottrina. Fuori da questo dibattito, va evidenziato che, come autorevolmente rilevato nella dottrina italiana sin dagli anni Settanta del secolo scorso [5], la concezione anglosassone della dual property non deve essere confusa con la nozione civilistica di doppia proprietà [6], per lo meno in quanto in common law le parole property ed ownership, come termini tecnici giuridici, non contengono “il concetto di appartenenza esclusiva nel senso per cui una cosa può dirsi propria di qualcuno” [7]. Ciò è a dire che negli ordinamenti di matrice anglosassone lo sdoppiamento della property è comune quanto da noi può esserlo la frammentazione di un’obbligazione, mentre negli ordinamenti di derivazione [continua ..]


2. Il trust tra “dual ownership” e Convenzione de L’Aja del 1985

Per comprende pienamente il discorso svolto nel primo paragrafo, occorre partire dalle origini, e svolgere un ragionamento articolato circa il modo in cui il trust si è evoluto nel corso dei secoli – sia nell’ambito della sua giurisdizione di elezione, e cioè quella inglese, sia nel contesto internazionale – e circa il modo in cui l’istituto attualmente può operare in Italia in ragione, in particolare di quanto previsto dalla Convenzione de L’Aja del 1985 e dell’art. 2645-ter c.c. È bene, dunque, cominciare questa riflessione osservando che il trust è un istituto di origine anglosassone che, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, per elasticità e notevole adattabilità ad esigenze e situazioni eterogenee, si è imposto nella realtà commerciale e, lato sensu, economica di tutto il mondo progredito [16]. L’emersione del trust nel panorama giuridico inglese è storicamente collocata attorno al 1250 d.C. e viene spiegata in ragione del fatto che in quel contesto, dal 1066 d.C. in avanti – e quindi dopo la conquista della Britannia da parte dei normanni capeggiati da Guglielmo il Conquistatore (futuro Re Guglielmo I), culminata nella celebre battaglia di Hastings – tramontò, almeno sul piano formale, la molteplicità di diritti sui beni che, malgrado il dogma (in verità oggi, almeno in parte, superato) del numerus clausus dei diritti reali, è ancora caratteristica dei sistemi continentali. Per realizzare situazioni atipiche di godimento sui beni ed instaurare rapporti gestori fu utilizzato, per l’appunto, il trust. L’operazione in parola fu agevolata dalla esistenza in Inghilterra di una giurisdizione – denominata equity ed alternativa rispetto a quella ordinaria – che si basava proprio sull’atipicità delle vicende e dei rimedi. È nell’ambito di tale giurisdizione, formalmente abolita solo dai Judicature Acts del 1873-1875 [17], che il trust vide la luce e trovò, via via, sempre maggiori applicazioni concrete nel corso dei secoli successivi. La struttura di un’operazione di trust sin dalla sua origine è fondamentalmente, ma non necessariamente, trilaterale: un soggetto (settlor) conferisce, attraverso un suo atto di volontà unilaterale, il legal title (e cioè la proprietà formale) su certi beni ad un [continua ..]


3. L’operatività del trust in Italia

Dopo che, nel corso del Novecento, sia la dottrina che la giurisprudenza avevano sostenuto la sostanziale incompatibilità del trust con le tradizionali categorie civilistiche e con i principi ritenuti fondanti del nostro sistema giuridico (i riferimenti più importanti, in questa prospettiva, facevano perno sul dogma del c.d. numerus clausus dei diritti reali e sul principio di unitarietà del patrimonio di cui all’art. 2740 c.c.), con la ratifica della citata Convenzione de L’Aja, e più ancora dopo l’entrata in vigore della convenzione si è aperto un apio dibattito sulla operatività dell’isti­tu­to nel nostro Paese [22]. All’esito del quale è ormai opinione diffusa tanto in giurisprudenza quanto in dottrina [23] – malgrado non sia mancata, in tempi in vero non proprio recentissimi, qualche autorevole voce contraria [24] – che il trust, anche nella sua versione esclusivamente nazionale (c.d. trust interno), sia idoneo ad operare nel nostro ordinamento in virtù della Convenzione stessa, salvo che gli scopi pratici concretamente con esso perseguiti, e dunque (secondo il più recente convincimento della Cassazione [25] la sua causa in concreto, non si prestino a valutazioni di illiceità da parte dei giudici di volta in volta coinvolti nella sua valutazione. In realtà, anche qualora si voglia ritenere – in accordo con la tesi internazional-privatistica rimasta oramai largamente minoritaria – che la Convenzione de L’Aja riguardi solo i trust internazionali, si deve ammettere l’operatività di trust costituiti in Italia, e/o destinati a operare nel nostro ordinamento, in virtù di quanto previsto dall’art. 1322 c.c., nonché dall’art. 41 Cost. in materia di autonomia privata, e ciò a prescindere dai persistenti dubbi circa la possibilità di rendere pienamente opponibili gli effetti di un trust ai terzi mediante trascrizione nei registri immobiliari [26]. Nel dibattito sull’operatività del trust in Italia un ruolo non secondario va riconosciuto oggi all’introduzione dell’art. 2645-ter nel codice civile italiano, ad opera della legge n. 51/2006 [27]. Tale circostanza, infatti, secondo molti autori, andrebbe inquadrata nell’ambito di quel processo di progressiva apertura che non solo il nostro ordinamento, ma [continua ..]


4. La segregazione patrimoniale come caratteristica peculiare del trust

Come appena evidenziato, la caratteristica distintiva del trust e la ragione del suo successo internazionale, risiede nella capacità di rendere il patrimonio costituito in trust insensibile tanto alle vicende personali del disponente, che una volta trasferita la proprietà al trustee perde ogni legame con i beni, quanto alle vicende personali di quest’ultimo, e cioè del soggetto formalmente intestatario del patrimonio stesso, e finanche a quelle dei beneficiari. In una parola, di renderlo patrimonio “segregato”. La “segregazione”, o se si preferisce – per usare una espressione meno selettiva e più di moda – “destinazione” patrimoniale, costituisce fenomeno dalle sicure radici nella tradizione dei principali sistemi giuridici occidentali, e in particolare del sistema di common law e in quello di civil law, all’interno dei quali la sua vicenda storica è legata strettamente a quella della fiducia [34]. Ed infatti, superata una primissima fase in cui la fiducia operò fuori dal­l’or­di­namento giuridico [35], già il diritto romano, sia di epoca classica che successiva, conobbe situazioni fiduciarie, nell’ambito delle quali venivano realizzate vere e proprie destinazioni patrimoniali e si determinavano conseguenti ipotesi di separazione patrimoniale (ad es. fiducia cum creditore e fiducia cum amico, ma anche rapporti medioevali aventi ad oggetto il fondo agricolo); ed inoltre come nell’ordi­namento giuridico che dopo l’anno mille si andò formando in Gran Bretagna, e che finì per costituire l’origine del common law, un posto di primissimo piano ebbe la giurisdizione di equity, nell’ambito della quale, al contrario di quanto accadeva nella giurisdizione ordinaria, trovava, e trova ancora oggi, pieno e precipuo riconoscimento la destinazione (con conseguente separazione/segregazione) patrimoniale originata da negozi o vicende caratterizzate dalla causa fiduciae. Tendenza, quella anglosassone a valorizzare la possibilità per i privati di effettuare destinazioni patrimoniali, che non fu per nulla compromessa e nemmeno influenzata da ciò che avvenne nei secoli seguenti nel vecchio continente, dove, in particolare con l’epoca dei lumi, per supportare l’affermazione dei neonati Stati mo­derni e cancellare l’organizzazione sociale medioevale [continua ..]


5. Il c.d. trust internazionale

La situazione cambia radicalmente solo tra gli anni Settanta ed Ottanta dello scorso secolo, allorquando il concetto di destinazione patrimoniale torna prepotente, insieme a quello di fiducia, ad imperversare anche negli ordinamenti di matrice civilistica. Ciò accade, in particolare, perché con lo sviluppo del commercio internazionale il problema della protezione dei capitali rispetto a vicende non strettamente attinenti alla singola operazione, e più in generale il problema delle garanzie commerciali, finanziarie e bancarie, diventa centrale, non solo per i singoli operatori, ma anche per i Paesi interessati ad attirare capitali dall’estero, ovvero a mantenere i propri capitali all’interno dei confini nazionali. Il bisogno, avvertito dapprima e soprattutto in ambienti internazionali, di strumenti giuridici più flessibili e dinamici, in grado di assicurare la soddisfazione delle esigenze di garanzia e separazione patrimoniale appena cennate, porta, nella pratica degli affari, all’affermazione spontanea e diffusa dell’istituto del trust. È appena il caso di ricordare che in Italia, dal XIX secolo in avanti, e del XX si era registrata una netta avversità di matrice giurisprudenziale e dottrinale nei confronti del trust. Avversità che, con il senno del poi, e in ragione di quanto anzidetto, possiamo ritenere giustificata più nell’ottica di una tenace difesa dei dogmi ottocenteschi su cui si era fondato il diritto civile di stampo francese, ed in definitiva la struttura stessa dei nuovi stati moderni, piuttosto che in ragione di un reale ed insuperabile contrasto tra tale istituto e il nostro ordinamento in termini di norme o di principi. L’attenzione e la preferenza accordate al trust dagli operatori del commercio internazionale determinò una situazione che portò in pochi lustri all’approvazione di legislazioni statali volte a favorire l’operatività dell’istituto all’interno dei propri confini, nonché all’elaborazione di un testo convenzionale di diritto internazionale privato che si tradusse nell’adozione, il 1° luglio 1985, della già richiamata Convenzione de L’Aja sul trust e sul suo riconoscimento. In questo senso, si è parlato di “corsa al trust” da parte di molti Paesi come esempio di “concorrenza legislativa” tra ordinamenti, volta a produrre [continua ..]


5.1. La differente nozione di trust tra il modello regolato dalla Convenzione de l’Aja e quello c.d. internazionale

Per comprendere in che misura l’approvazione della Convenzione abbia avuto un ruolo importante, se non proprio determinante, in questa presunta emersione di un modello internazionale di trust, e per evidenziare da subito attraverso quali meccanismi tal ultimo istituto si emancipi dal modello tradizionale inglese, basta, a titolo esemplificativo, ricordare la vicenda delle Barbados, il cui ordinamento, che pur conosceva il trust al momento dell’adozione della Convenzione de L’Aja e lo regolava in forza di una legge del 1979, nel 1995 si dotò di una nuova legge, il Barbados International Trusts Act, sicché oggi i trust interni, o nazionali, vengono regolati dalla legge del 1979 che ricalca sostanzialmente il modello di tradizione britannica, mentre i trust internazionali subiscono l’applicazione di regole e principi affatto nuovi. Come è stato notato, il modello di trust c.d. internazionale possiede alcune caratteristiche comparatisticamente assai significative in quanto, tra l’altro, la sua fonte è esclusivamente legislativa e si alimenta di “flussi” giuridici costanti, il modello è “aperto” ai contributi innovativi, il numero di ordinamenti che lo testimoniano è elevato (circa trenta) e nessuno fra essi può essere individuato come il primo fattore, ma tutti collaborano all’evoluzione dell’istituto [42]. Si dubita che in tale (pseudo)categoria – e cioè in quella del trust “internazionale” – possano essere ricondotti i trusts regolati da Stati con ordinamenti di matrice civilistica, in quanto questi ultimi, sebbene condividano alcune caratteristiche del modello internazionale, per altri versi si distinguono significativamente da questo. In tale prospettiva, la distinzione principale può individuarsi nel fatto che il modello c.d. internazionale sostanzialmente finisce per considerare trust ogni ipotesi di sottoposizione dei beni del settlor sotto il controllo del trustee nell’interesse di terzi o per il perseguimento di determinati scopi, laddove al contrario, in molte giurisdizioni, soprattutto di civil law, si pretende che il disponente trasferisca al trustee la proprietà (formale) dei bene conferiti in trust. Di tanto tiene conto, ed in questa prospettiva muove espressamente, la Convenzione de L’Aja del 1985, la quale all’art. 2 riferisce espressamente il concetto di [continua ..]


6. Le conseguenze dell’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. nell’ordina­men­to italiano

Ai fini della Convenzione de L’Aja, come in parte anticipato, “per trust s’inten­dono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo [nella versione inglese, “under control”] di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”, ed è previsto che il trust deve presentare le seguenti caratteristiche: “a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge.” La lettera della disposizione alimenta il dubbio che quando il settlor non si limita a porre i beni in trust “sotto il controllo” del trustee attraverso una semplice intestazione, bensì – in conformità alla tradizione inglese – trasferisce a quest’ultimo il diritto di proprietà su tali beni, sebbene funzionalizzato (o finalizzato, o destinato), alla realizzazione dell’interesse del beneficiario o alla realizzazione dello scopo del trust, si sia fuori dall’ambito di applicazione della Convenzione. In altre parole, il dubbio concerne la necessità o meno che in una vicenda di trust, idonea a svolgersi nell’ordinamento italiano, sia indispensabile l’effetto traslativo dal settlor al trusteee del diritto di proprietà sui beni che costituiscono il trust found [44]. Il dubbio appena segnalato sembra oggi rafforzato dalla recente novella al codice civile con cui, in materia di trascrizione, è stato inserito il nuovo art. 2645-ter. Tale articolo introduce nel nostro ordinamento civile la pubblicità dichiarativa del vincolo di destinazione, senza tuttavia che, almeno in prima battuta, venga minimamente in rilievo l’atto traslativo che nel trust tradizionale inglese – ma, come appena visto, non già nella Convenzione dell’Aja – è funzionalmente indispensabile per la realizzazione del vincolo. In altre parole, il legislatore italiano risulta non aver preso in considerazione la necessità di pubblicizzare, e [continua ..]


7. Conclusioni

Il polimorfismo rappresenta una caratteristica tipica del trust, resa ancora più manifesta per il fatto che, nel nostro ordinamento, per utilizzare un trust, sino a quando non verrà emanata una legge italiana sul trust, occorre sottoporlo alla disciplina di una legge straniera. E, come visto, le tante leggi nazioni che riguardano il trust disciplinano l’istituto, sul piano domenicale, in maniera anche molto diversa l’una dall’altra. Sicché, per poter correttamente individuare il titolare effettivo del patrimonio in trust, al fine di adempiere agli obblighi previsti dalle norme di legge vigenti in materia di antiriciclaggio, l’operatore dovrà esaminare la fattispecie concreta sottoposta al suo vaglio per verificare, di volta in volta, quale dei soggetti coinvolti nel­l’operazione appaia godere, in quel singolo caso, delle prerogative proprie del titolare effettivo, visto che potrebbero riconoscersi, di volta in volta, tali prerogative tanto in capo al fiduciario, quanto in capo ai beneficiari e persino in capo al disponente, se, ad esempio, nell’atto istitutivo (o in un altro documento collegato) quest’ultimo si è riservato il potere di revocare il trust.


NOTE