L’applicazione della BJR alla responsabilità degli amministratori per le scelte imprenditoriali da essi compiute, comprese le scelte relative agli assetti organizzativi aziendali, è stata oggetto di una recente Ordinanza del Tribunale di Roma che si è espresso in merito alla responsabilità degli amministratori in presenza di assetti organizzativi inadeguati.
The application of the BJR to the directors’liability for their corporate business choices, including the choices relating to corporate organizational structures, is the subject of a recent order of the Court of Rome which has expressed the directors’liability in case of inadequate organizational structures.
Keywords: Directors’liability – corporate organizational decisions – adequate organizational structures – Business Judgment Rule.
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Premessa - 1. La tutela invocata attraverso il richiamo alla BJR - 2. La discrezionalità delle scelte degli amministratori - 3. La solida e rassicurante distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato - 4. Osservazioni conclusive - NOTE
L’ordinanza del Tribunale di Roma dell’8 aprile 2020, sezione specializzata in materia d’impresa [1], ha attratto particolare attenzione, non per la decisione di merito in sé che ha riconosciuto un atto di mala gestio nell’assunzione di un numero spropositato di dipendenti rispetto alle esigenze della società appena costituita, quanto per aver affermato l’applicabilità della c.d. Business Judgment Rule (in seguito BJR) alle decisioni organizzative degli amministratori. Non è la prima decisione giurisprudenziale che concluda in tal senso, ma nella motivazione dell’ordinanza in commento vi è l’eco dei più recenti e oramai numerosi contributi dottrinali italiani sul tema [2]. Il Tribunale di Roma ha così stabilito che il dovere di curare l’adeguatezza degli assetti organizzativi dell’impresa, imposto dall’art. 2381, comma 5, c.c. (ma ora anche dall’art. 2086, comma 2, c.c.) [3], è coperto dalla tutela della BJR giacché l’adempimento di suddetto dovere costituisce una decisione imprenditoriale poiché la sua natura è discrezionale: «la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. (…) l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale. In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità (…)». La decisione offre lo spunto per sollevare alcuni interrogativi su questa regola [4] giurisprudenziale di importazione anglosassone che, discutibile e discussa anche nella patria di origine [5], stenta a sedimentarsi [6], scontrandosi con un [continua ..]
È utile, prima di procedere nella riflessione oggetto di questa nota, rammentare brevemente il contenuto della regola e le sue finalità, come evolute nell’analisi dottrinale delle sue applicazioni. Secondo la definizione di Wex [10], da annoverare tra le più aggiornate tra le definizioni sintetiche, «The business judgment rule is invoked in lawsuits when a director of a corporation takes an action that affects the corporation, and a plaintiff sues, alleging that the director violated the duty of care to the corporation. In suits alleging a corporation’s director violated his duty of care to the company, courts will evaluate the case based on the business judgment rule. Under this standard, a court will uphold the decisions of a director as long as they are made (1) in good faith, (2) with the care that a reasonably prudent person would use, and (3) with the reasonable belief that the director is acting in the best interests of the corporation. Practically, the business judgment rule is a presumption in favor of the board. As such, it is sometimes referred to as the “business judgment presumption.” There are a number of ways to defeat the business judgment presumption. If the plaintiff can prove that the director acted in gross negligence or bad faith, then the court will not uphold the business judgment presumption. Similarly, if the plaintiff can prove that the director had a conflict of interest, then the court will not uphold the business judgment presumption». Il presupposto di fatto per l’applicabilità della regola è dunque il compimento di un atto da parte degli amministratori che causi un danno alla società e che si ritenga sia stato compiuto in violazione del dovere di diligenza. Se il giudice accerta che l’atto è stato compiuto in buona fede, con la diligenza propria di una persona ragionevolmente prudente (il nostro buon padre di famiglia) e non in conflitto di interessi, i giudici potranno legittimamente presumere che l’atto sia stato compiuto nel miglior interesse della società e gli amministratori non risponderanno dei danni causati. Scopo primario della regola è di evitare che gli amministratori, esposti al rischio di azioni di responsabilità nel caso in cui le scelte imprenditoriali da loro compiute si rivelino economicamente sbagliate e producano perdite, si determinino ad assumere un comportamento di [continua ..]
Malgrado la chiara (e invero contenuta) ratio della regola, è ricorrente nella nostra letteratura sul tema l’affermazione che la tutela spiegata dalla BJR si applichi alle decisioni discrezionali degli amministratori e, rilevato il carattere “aperto” se non addirittura di vera e propria “clausola generale” dell’art. 2381 c.c. [18], ne conseguirebbe l’applicabilità della BJR anche alle scelte pertinenti all’articolazione organizzativa dell’impresa [19]. La conclusione non è invero pacifica: autorevole dottrina, richiamandosi alla nota distinzione tra obblighi a contenuto specifico e obblighi a contenuto generico in capo agli amministratori [20], ritiene che il dovere di adottare un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa vada annoverato tra i primi; si tratterebbe dunque di un obbligo specifico, benché a contenuto indeterminato, e predeterminato legislativamente come quello di redigere il bilancio o di convocare l’assemblea ai sensi del 2446 c.c.; avente ad oggetto l’organizzazione e non il merito della gestione e, soprattutto, strumentale e preordinato ad un corretto processo decisionale; come tale, un’obbligazione di “corretta” gestione della società, non scelta discrezionale riguardante il rischio di impresa di attuazione dell’oggetto sociale [21]. Si è di contro obiettato che gli assetti organizzativi adeguati, per quanto precisati in sede di scienza aziendalistica, di best practice, di autodisciplina delle società quotate o in codici o linee di condotta o in normative regolamentari, non sono mai concepibili come “assetti universalmente validi”, sia perché correlati alla “natura” e/o alla dimensione dell’impresa sia perché connessi alle “scelte strategiche” e al contesto operativo della singola impresa [22]. Si sottolinea pertanto la natura “aperta” del dovere in questione, anzi la sua natura di vera e propria clausola generale e l’incontestabile “ampliamento della sfera di discrezionalità tecnica dell’organo gestorio” [23]. Nel dibattito ci si è anche richiamati alla distinzione classica della dottrina commercialistica tra decisioni propriamente imprenditoriali e decisioni meramente [continua ..]
Sembra invero possibile fissare un punto fermo: la differenza in concreto tra decisioni di merito (costitutive del rischio d’impresa) e decisioni organizzative dell’imprenditore o del gestore di impresa altrui non sta nella loro natura; a prescindere che si tratti di obbligazioni a contenuto generico o a contenuto specifico, sono rimesse entrambe a valutazioni discrezionali dell’imprenditore o gestore, se è vero, come è vero, che discrezionalità significa libertà di identificare le scelte. La differenza sembra stare piuttosto, proprio da un punto di vista empirico, nella valutabilità ex ante o ex post della bontà delle scelte effettuate. La scelta organizzativa è sicuramente censurabile (ancora prima che dal giudice, dagli stessi organi deleganti) con una valutazione ex ante ma anche ex post, di raffronto tra l’organizzazione adottata e le soluzioni offerte, prima durante e dopo l’adozione delle scelte, dalle tecniche di organizzazione aziendale in funzione della natura dell’attività esercitata e dalle dimensioni dell’impresa (e, si lasci dire, dalle risorse spendibili a tali fini, considerando che tutti i costi di compliance sono costi puri, privi di ritorno economico, e fissi) [28]. Quando occorre decidere l’organizzazione della struttura, si sa bene o si è ben in grado di sapere di quali risorse umane, di processo e strutturali si necessita, considerate le caratteristiche e gli obiettivi dell’impresa. Non si tratta di pronosticare un futuro incerto o eventi imprevedibili, ma di allocare costi alle necessità di assetti adeguati. Nessuno può seriamente pensare che un Modello Organizzativo 231 non sia censurabile nel merito della sua efficacia ed effettività nella prevenzione dei rischi di reato [29]; o che non sia censurabile nel merito la strutturazione dei processi aziendali e la loro procedimentalizzazione in procedure e protocolli: è ciò che fa, laddove istituito, il controllo interno di gestione o la funzione di internal audit. E nessuno si scandalizza per questo. Si sottolinea anzi come tutti i modelli organizzativi siano necessariamente “organismi viventi” e perciò mutanti alle mutevoli esigenze dell’azienda: è proprio un obbligo degli amministratori di adeguare il modello al cambiamento, vuoi che si tratti di cambiamenti indotti dalla [continua ..]
Proverei a ricapitolare: il tema in discussione non è se le decisioni di “discrezionalità gestoria” (o quali fra di esse) possano formare oggetto di sindacato da parte dei giudici [45], ma se gli amministratori di patrimonio altrui debbano rispondere dei danni causati (direttamente e immediatamente ex art. 1218 c.c.) dai propri errori di gestione. La circostanza che si tenda ad applicare una regola giurisprudenziale straniera, mai codificata in Italia, che deroga al diritto positivo (creando anche qualche imbarazzo dal punto di vista costituzionale) e che nelle applicazioni giurisprudenziali italiane dimostra di fornire una coperta piuttosto corta, indurrebbe a concludere che, in assenza di tale regola, la questione neppure si porrebbe: la diligenza dovuta dagli amministratori comprende, anche, la perizia richiesta dalla natura dell’incarico. E ciò ogni qualvolta si tratti di adempiere obbligazioni governabili e nella misura in cui lo siano. Al di là di ciò, è fatta salva un’altra “coperta”, quella rappresentata dalla prova della causa non imputabile al debitore, causa che, certamente, non può essere la sua stessa imperizia. La BJR manca di ogni fondamento nel nostro ordinamento giuridico e, nell’estenderne l’applicabilità anche alle prestazioni governabili da parte degli amministratori, si contravviene al bilanciamento operato dal nostro legislatore in tema di responsabilità per danni: l’applicazione della regola consente di affermare che l’amministratore “diligente”, che abbia cioè rispettato il procedimento decisorio, non è mai responsabile per inadempimento, neppure quando la sua prestazione sia governabile. Senonché, il danno prodotto dall’inadempimento, una volta realizzatosi, è un fatto, ovvero un evento che grava necessariamente su qualcuno e, per effetto della BJR, finisce per ricadere sugli azionisti, che sono creditori senza colpa. La scelta operata, invece, dal nostro legislatore con la formula dell’art. 1218 c.c. è nel senso che, ogni qualvolta la diligenza appaia irrilevante perché ciò che è dovuto è un bene determinato o un risultato che era possibile promettere, il debitore risponde anche quando il proprio inadempimento sia senza colpa, perché ciò di cui si preoccupa il legislatore è [continua ..]